Ennio Morricone e la lezione del piedistallo

a cura del CONTE DI MONTECRISTO –

Dal 6 luglio 2020 Ennio Morricone non è più tra noi, o forse è meglio dire che non è più sul palco, non è nel suo studio. Non è in giro, a passeggio con la signora Maria. E non è neanche dal barbiere. Ma c’è. Giustamente, nell’immediato della sua scomparsa si sono tutti occupati di lui, di quella sua capacità di essere compositore sui generis, impegnato eppur leggero, preciso e pignolo senza trascendere dalla semplicità, geniale e tecnicamente raffinato restando persona che ha saputo insegnarci che umiltà e gentilezza non sono sinonimi di rinuncia, tantomeno debolezza. Men che mai compiacenza. E giustamente, giornali e televisioni, d’ogni costa oceanica, dal vecchio al nuovo mondo, hanno ricordato le sue opere, dagli arrangiamenti musicali di inizio carriera, alle straordinarie colonne sonore che spesso rappresentano i film più della trama, più degli interpreti.Giustamente, hanno edificato il “Maestro”, il linguaggio universale delle sue composizioni, la bellezza di quelle note che sapevano attingere agli elementi della vita. Le opere restano, raccontano, e continueranno a raccontare, la forza artigiana che c’è nell’arte, la saggezza di una conoscenza che non è solo cultura e preparazione. Ma l’uomo Ennio ci lascia un testamento ancora più ampio, più completo, al limite della commozione per chi sa cosa significa sensibilità. Se anche la propria vita è un’opera, egli l’ha portata a termine e, in sintesi, ci dice che dal piedistallo è meglio scendere con eleganza, piuttosto che rincorrerlo maldestramente.

In tempi di social, assistiamo ai patetici tentativi di contar qualcosa con una esposizione di sé oltre il buon senso. Lasciando da parte i gatti, le albe e i tramonti, abbondantemente fotografati come se non ci fosse un domani o come se nessun altro al mondo se ne fosse accorto, ecco che basta un raffreddore per mobilitare le emozioni degli “amici”, raccontando nei dettagli la più inutile delle condivisioni, alla perenna ricerca del proprio montepremi: i like e la crescita di followers. Se poi, il nostro cercatore di podio sa un po’ scrivere o dipingere, o crede di saperlo fare, ecco che entra di diritto nel girone dell’autocelebrazione. Il romanzetto scritto con “passione e dedizione” ma senza il minimo sindacale per restare nei ricordi dei propri parenti stretti, foss’anche di una sola generazione, te lo ritrovi “postato” e riproposto con tanto di aneddoti, di pathos inverosimile quanto mal recitato e, purtroppo, alimentato dai commenti compiacenti di amici, virtuali o reali non fa più differenza ormai. Basterebbe guardare quei complimenti con distacco per comprendere che tipo di sincerità c’è dietro, basterebbe osservare gli stili della comunicazione per rendersi conto del nulla che li produce. Ma questo non interessa al nostro “artista”: l’importante è che ci siano! A questo siamo arrivati. Un Oscar Wilde si divertirebbe un mondo nel vedere quante marionette si muovono convinte di essere autonome, quanti “pensatori” pensano i pensieri già pensati, elaborati ed espressi meglio da altri: ma non lo sanno e forse non sono in grado di riconoscerli.

Torniamo al Maestro, d’arte e di vita, torniamo ad Ennio, alla sua lettera di addio che commuove anche il cinico, con la richiesta del funerale privato, giustificato da quell’ultima frase, “non voglio disturbare”. Sì, Ennio sapeva scendere dal piedistallo con eleganza senza esserci mai salito con presunzione. Sapeva che se la propria anima, nel suo significato più ampio e laico, sa “dialogare” con quella di chi incontra, allora si trovano le risorse emotive, le ispirazioni più sottili per produrre un’opera che “è” anima, è linguaggio assoluto, universale e, in un certo senso, eterno. Senza dimenticare che non si può prescindere da una preparazione rigorosa, da un esercizio continuo e da una disciplina della materia che in lui assumevano quasi le dimensioni della fede.

E in fondo, la lezione di Morricone ci ricorda che siamo parte di una umanità che, pur con tante e troppe infamie, ci dona motivi di soddisfazione. L’arte prodotta, quella vera, riesce ad oltrepassare i secoli, riesce a comunicare alle anime di altre culture, altre antropologie. Riesce ad unire, seppur per brevi istanti, riesce a tenere insieme le speranze e ad alimentare quei frammenti di fiducia senza la quale non ci sarebbe più futuro. Tutto questo non condanna l’artista della domenica, non deride l’improvvisatore dei versi, ma lo invita a non cercare scorciatoie, a non volere un frettoloso quanto instabile piedistallo: lo chiama a guardare più in profondità, più “dentro” se stesso, più in lungo e in largo. Ricordandogli che l’Arte è cosa seria. Non terapia per fragili autostime e carenze di consapevolezza.

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