di ALCEO LUCIDI –
Amava definirsi un cronista, Sergio Zavoli, intellettuale riminese, giornalista, scrittore, direttore della Rai dal 1980 al 1986. Autore di pregevoli inchieste (“Il processo alla tappa”, dal 1962 al 1969, in cui tratteggiò i contorni di un’Italia gregaria per cui lo sport, il ciclismo, era occasione di riscatto sociale, “La notte della Repubblica”, sapiente documentario a puntate che, all’interno della terribile parabola del terrorismo rosso, chiamava di fronte al tribunale della Storia accusati, accusatori, vittime e carnefici per mettere a nudo i loro vissuti), l’esperienza di Zavoli sfocia in vari campi ed attività plurime fino a toccare l’impegno politico (diventa il senatore decano dopo varie legislature spese sugli scranni dei partiti della sinistra parlamentare).
Della politica vedeva il lato nobile: il servizio ai cittadini, la lotta alla corruzione e gli abusi di potere anche, e soprattutto, all’interno della Rai nella quale era entrato giovanissimo nel 1947 e che aveva guidato saggiamente nel momento in cui la televisione virava verso un giornalismo dai contorni indefiniti, prono ai grandi interessi privati, mentre la comunicazione mass-mediatica era sempre più vicina alle logiche commerciali del consumismo e della spettacolarizzazione dell’informazione. Guidò la Commissione di Vigilanza Rai anche per questo motivo, ossia nella vana speranza che il servizio pubblico televisivo non finisse in mano ai partiti, alle spartizioni delle nomine, alla lottizzazione degli incarichi, insomma a tutto ciò che avesse comportato un condizionamento per l’esercizio di un pensiero critico libero ed incondizionato.
É stato di quei cristiani dalla fede inquieta ed incrinata dal dubbio che possono essere ricondotti al cosiddetto Cattolicesimo rosso di Giuseppe Prezzolini. Coriaceo assertore del senso di responsabilità di ognuno di fronte alle contingenze della vita, al mondo nella sua complessità sociale, culturale, politica, era vicino ad un tipo di spiritualità religiosa pronta ad assecondare ed agglutinare le aspettative e le speranze degli uomini del suo tempo, devastati dall’odio di classe e sociale, divisi ideologicamente ma capaci anche di auspicare e costruire una realtà migliore, più giusta, più equa, più solidale, in linea con i principi evangelici. Un socialismo dunque non laico, il suo, ma cattolico, non integralista ed ortodosso, quanto vivo, critico e disposto a rimettersi in gioco.
La stessa fede agonica e piena di tensioni e slanci morali, piantata sul terreno dei problemi della società contemporanea, condivisa con l’amico di una vita: Carlo Bo. Come lui affrontò l’impegno della scrittura (da romanziere l’uno e da saggista l’altro) ma anche la fatica del giornalismo, come approfondimento, indagine, critica di costume, il senso profondo della lettura come base imprescindibile per la formazione intellettuale e, infine, la partecipazione sentita alle vicende pubbliche (più una precisa chiamata all’engagement, per Zavoli, che non un percorso connaturato alla sua attività amministrativa e istituzionale come per Bo).
Zavoli con la sua voce calma, tersa, pacata e ferma ha saputo raccontare l’Italia delle verità secretate, dei tempi bui della violenza politica ma anche della rinascita, del rilancio economico e sociale che passava per la radio, la televisione – di cui fu maestro – e lo sport, con una signorile misura delle quali ci siamo forse troppo presto dimenticati.
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