di GIANNI ROSSETTI –
E’ il simbolo della pace e della longevità. Ma anche della tenacia e della sofferenza. Quei contorti ma vitalissimi tronchi, che caratterizzano l’ambiente rurale e soprattutto il paesaggio collinare marchigiano, sono il segno dell’attaccamento atavico e dell’amore viscerale che questa pianta sa infondere a chi la coltiva, a chi si confronta con lei nel corso delle stagioni.
Sono seimila anni che l’olivo cresce sotto il cielo mediterraneo e altrettanti che il succo dei suoi frutti illumina la tavola, la casa e la vita degli uomini. L’olio della Marca è sempre stato rinomato e prezioso per la sua qualità. Antonio Muratori nel libro “Antichità dell’Italia nel Medioevo” scrisse che nel 1228 le navi marchigiane che approdavano a Ferrara dovevano pagare il “ripatico”, un pedaggio di 25 libbre di olio.
E a quest’olio, per la sua bontà e la sua qualità, si dava un valore superiore a quello delle altre regioni. Nel 1263, i Veneziani, signori e maestri del commercio, separavano le derrate di olio della Marca dalle altre per rivenderle a un prezzo superiore, proprio in virtù dell’aroma e del sapore. La Serenissima era il principale acquirente dell’olio marchigiano, ma una parte considerevole andava anche a Firenze. Un documento attesta che nel 1347 i Fiorentini importarono dalla Marca oltre 2.500 orci di olio. La sua bontà deriva anche dalla posizione geografica: per la produzione di olive siamo una regione di confine. E l’olio prodotto nelle latitudini più alte ha una composizione acidula ottimale (le Marche sono fra le regioni più a Nord).
Secondo la mitologia greca fu Atena a piantare in Grecia l’olivo in una disputa con Poseidone per il possesso dell’Attica. Ecco perché gli olivi furono considerati sacri (oltre che emblema di castità). Non solo era proibito bruciarne il legno, ma si puniva severamente chi li danneggiava. Perfino gli Spartani, quando saccheggiarono Atene, li risparmiarono temendo la vendetta degli dei.
Essendo sempre verde è stato preso come simbolo della sapienza che rivela la via della Giustizia (nella Bibbia ci sono tantissime citazioni). Sempre nella Bibbia è indicato come simbolo di vita e di speranza. Dopo il diluvio la colomba ritorna a Noè con una foglia d’olivo che ha strappato con il becco. L’olio, oltre che alimento vitale è anche elemento della consacrazione, segno di benedizione, fonte di luce, lenisce le piaghe, fortifica gli ammalati, rende splendente il corpo, onora l’ospite.
Per la gente delle Marche, fino alla metà del Seicento, l’olio (assieme al vino e al grano) è stata la principale forma di ricchezza. Anche oggi l’olio marchigiano (anzi, gli oli marchigiani, perché ce ne sono diverse varietà, secondo le zone) sono molto apprezzati e rinomati. La produzione non è più così sovrabbondante come un tempo, ma è all’avanguardia per la qualità. Avrebbe tutte le carte in regola per ottenere la Dop, ma banali, puerili e sterili dispute di campanile hanno impedito il raggiungimento di questo traguardo.
Fra le diverse varietà da olio ce n’è una particolarissima e unica da tavola: l’oliva tenera ascolana. Un tempo le olive ascolane erano offerte all’inizio dei banchetti per stimolare l’appetito e alla fine per pulire la bocca. Plinio le considerava le migliori fra tutte le varietà italiane. E nella descrizione del celebre banchetto di Trimalcione si citano proprio le olive ascolane offerte a Nerone e ai suoi commensali come antipasto. Oggi sono servite farcite con un misto di carni e sono componente essenziale del contorno fritto nei pranzi più suntuosi. Con la tenera ascolana si fa anche un eccellente olio.
Oggi nelle Marche si raccolgono poco più di 300 mila quintali di olive. La produzione di olio supera appena i 50 mila quintali. Considerando che, mediamente, consumiamo ogni anno 10-12 chili di olio a persona, la nostra regione ha bisogno di almeno 150 mila quintali. L’olio prodotto copre appena un terzo della richiesta. Gran parte del consumo è assicurato dall’olio che arriva dall’estero. Nel porto di Ancona transitano ogni mese 50 mila quintali di olio che arrivano con le navi e sono trasportati con autobotti, come la benzina. Un prodotto ben diverso, sia dal punto di vista organolettico che salutistico, da quello che esce dai nostri frantoi e in particolare dai piccoli produttori che curano la qualità quasi con attenzioni maniacali.
Negli anni Cinquanta il prof. Ancel Keys (grande maestro di nutrizione umana, morto otto anni fa all’età di 101 anni) con lo “Studio dei sette paesi” dimostrò che alcune popolazioni del bacino del Mediterraneo avevano un tasso di mortalità per malattie cardiache dieci volte più basso di quello statunitense. Gran parte del merito fu attribuito alla dieta mediterranea che ha come base cereali, frutta, verdura, pesce e olio d’oliva. E all’interno della dieta mediterranea l’olio extravergine di oliva ha dimostrato una superiorità alimentare rispetto a tutti gli altri grassi, vegetali e animali. L’importante è che sia olio di qualità. E’ fondamentale quindi sapere da dove viene, come è prodotto e come è conservato.
Il prezzo è un elemento, anche se non l’unico, per distinguere un olio di qualità. Vi siete mai chiesti cosa può esserci in una bottiglia che costa tre euro (a volte anche meno)? Fate il conto dei costi extra prodotto, lavorazione compresa: bottiglia, salvagocce, tappo, etichetta, trasporto, imballaggio e commercializzazione. Quanto resta per l’olio?
Altra domanda: quanto pagate l’olio che mettete nell’automobile come lubrificante per il motore? Almeno quindici euro al litro! E vi sembra logico, razionale e salutistico utilizzare per il nostro “motore” (cioè il corpo umano) un olio che costa cinque volte di meno?
Troppo spesso ignoriamo l’ “oro giallo” di casa (Omero, nell’Odissea, lo chiamava il liquido d’oro) per andare a cercare quello che arriva dall’estero, che di oro ha appena il colore. Purtroppo è la mentalità auto flagellante che regna nella Provincia sonnolenta e appartata. Ma forse è arrivato il momento di guardarsi attorno e di aprire bene gli occhi.