di GIAMPIETRO DE ANGELIS –
Ci sono libri che, semplicemente, vengono letti, altri che “ti leggono”. E ti cambiano. Quel cambiamento impercettibile, che nessuno vede. Resti uguale, ai loro occhi: stesse abitudini, quel modo di fare e di dire, in quel tuo carattere un po’ così, che magari cambieresti anche ma che non cambia. Ci sono cose che non cambiano. Eppure, ci sono libri che trovano una via, si inoltrano nella vita che non hai vissuto, nell’emozione che tieni ben celata, in quella verità che ti appartiene – tu sai che è reale – ma che non sale in superficie, non s’offre alla vista e – nei fatti – resti sconosciuto a tutti. Quasi a tutti. Te ne accorgi quando ti fermi su una parola, quella “parola”. Non riesci ad andare avanti, hai bisogno di darle il tempo di scendere fin dove occorre. E ti fermi a cercare la frase che le ha dato vita. Torni indietro al capitolo, analizzi le virgole, guardi i punti come se fossero lo stop all’incrocio, a cercare l’algoritmo che ha generato quel palpito, quell’aritmia improvvisa, quell’indecifrabile sorpresa. È allora che comprendi che non sei tu a leggere ma è il libro che sta leggendo te. Ti sta svelando la tua stessa natura, ti sta accarezzando e ne hai paura: hai paura di trovarti. L’anima chiama, ma da strade imperscrutabili. Libri così sono tutti e nessuno, perché non dipende dal testo, dipende dall’incontro. Quel particolare incontro. E guai a leggerli una seconda volta a distanza di anni. Resteresti deluso, che le magie non si rinnovano. Le magie non sono facili da incontrare.
Mi è successo più volte di provare quel mix emotivo, stordente e rivelatore. In una occasione in particolare, nella lettura di “Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta” di Robert Pirsig. Storia complessa, in gran parte autobiografica. Libro dalla struttura reticolare, a più livelli, pur nella linearità di un viaggio in moto sulle strade secondarie di un’America meno nota, lungo il fiume Hudson in direzione dell’oceano. Libro che tanto ha e tanto dice, dalle condanne sociali alla filosofia, dalla mitologia alla più spiccia manualità, dalla malattia ai sentimenti, dalla sconfitta alla salvezza, dalla morte alla speranza. Cercando la Verità, ovvero la forma, anche matematica, della Qualità. Pirsig fece una gran fatica con il manoscritto, inizialmente rifiutato dagli editori, ma che, una volta pubblicato, nel 1974, ebbe un successo travolgente, probabilmente inaspettato dall’autore stesso, e più volte ristampato. Oggi, è un classico della letteratura americana. Lo scrittore è scomparso nel 2017 a 88 anni. Senza entrare nel contenuto del testo – e senza rivelare la magia dell’incontro che resta una mia esperienza personale – mi soffermo su due frasi.
La prima è “Viaggiare è meglio che arrivare.” Seppure intuibile, il significato profondo non è immediato nell’epoca della competizione e dei traguardi. Non c’è traguardo nel viaggiare, c’è la rivelazione. Occorre lo sguardo “zen” per afferrarne appieno il senso. Occorre “sentire” l’attimo, il qui ed ora, donandosi ad esso. L’esperienza della vita è nella percezione degli istanti, sentendone i suoni, le vibrazioni, le interazioni emotive. Quando la mente è proiettata solo alla meta – pur necessaria l’idea di meta – vengono persi i contenuti del tragitto. È un hard disk vuoto, un’equazione matematica che mostra solo il risultato senza la bellezza dello sviluppo. Come fare una scalata dormienti e svegliarsi solo in cima: cosa resta, cosa è? La ricchezza esperienziale è prettamente nel viaggio, che è sempre nuovo in quanto irripetibile.
L’altra frase, ancora più rivelatrice, è un omaggio a Platone, al dialogo di Fedro, dove Fedro, nel libro di Pirsig, è un ideale alter ego dell’autore, il suo doppio, perso lontano nel tempo e nella memoria, ma che riaffiora a tratti fino al ritrovarsi. La frase dice: “E ciò che è bene, Fedro, e ciò che non è bene – dobbiamo chiedere ad altri di dirci queste cose?”
Il maestro non esiste, non c’è guida, non c’è il sacerdote che tutto sa e te lo rivela. Non c’è salvezza schematizzata in un dogma. C’è la fatica di trovare il percorso, la consapevolezza di sé, il saper guardare con occhi di bambino. C’è l’onestà intellettuale. C’è lo sguardo interiore, che non è mai del tutto limpido. Ma ci si lavora su questo, per renderlo ancora più chiaro. Per poter trovare la Qualità prima ancora della Verità che, lo sappiamo, resterà sempre imperscrutabile.
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