La triste storia di Ota Benga, pigmeo del Congo esposto allo zoo umano

di GIAMPIETRO DE ANGELIS –

L’Europa ha grandi tradizioni, concreto serbatoio di arti, cultura, filosofia e scienze, e sarebbe fin troppo banale ribadirlo se non fosse che talvolta ci dovremmo riappropriare dei valori alti affinché non accadano più brutte vicende come quelle che ci furono negli ultimi decenni dell’800 e nei primi del ‘900. Nel pieno risveglio industriale, quella rivoluzione tecnologica che avrebbe cambiato la vita delle generazioni successive, qualcuno ebbe l’illuminata idea che occorreva mostrare alle evolute popolazioni dei bianchi che sul pianeta non siamo soli e, soprattutto, che gli “altri” sono diversi. Molto diversi. Nacquero le “esposizioni etnografiche”. Al pari degli zoo faunistici, ci furono gli zoo umani, con un certo interesse e approvazione anche da parte degli accademici antropologi. Successo di pubblico enorme e grandi guadagni. Le famigliole al completo andavano a vedere questi “esemplari” per i quali venivano costruiti recinti con dentro le capanne tipiche dei paesi di origine. Da dentro quelle barriere, uomini, donne e bambini, perlopiù neri ma non solo, dovevano soddisfare le curiosità, mostrando le danze tribali, dedicandosi ad una recitazione delle attività del villaggio, vestendo i loro abiti, e quindi seminudi, anche in luoghi freddi e in stagioni invernali. Qualcuno moriva, di freddo e malattie.

Le esposizioni andavano di pari passo con le colonizzazioni. “Esportare” la civiltà è sempre stato il pallino dell’Occidente. E si sa che esportare, nell’accezione di cui sopra, ha sempre fatto rima con espropriare. Senza voler affrontare l’argomento nelle dinamiche sfaccettate del fenomeno coloniale, torniamo alle esposizioni etnografiche il cui successo può avere più spiegazioni. Il pubblico vedeva per la prima volta soggetti di altre etnie che, semplicemente, passavano come persone di razza inferiore, più vicine alla scimmia nella catena evolutiva. Più animali che umani. La propaganda giocava un ruolo facile: la presunta inferiorità giustificava la colonizzazione che veniva fatta passare quasi come una benedizione per quei popoli. Infine la ragione economica. Gli zoo umani richiamavano così tanta attenzione, e sostanzialmente nessuna critica, che non si poteva non farlo.

Uno dei primi esempi risale al 1877 a Parigi, con degli spettacoli etnologici organizzati dal direttore del Jardin zoologique d’acclimatation. Successo immediato. Gli spettacoli si moltiplicarono e strutturarono nella forma descritta di veri e propri zoo umani dove gli “ospiti” vivevano in cattività. Altre capitali europee si organizzarono allo stesso modo. Pochissime di quelle persone tornarono in patria. Anche negli Stati Uniti, nonostante che da poco era stata abolita la schiavitù degli africani, ci furono gli zoo etnologici.
Affinché non resti una descrizione asettica e spersonalizzata, parliamo di uno di quegli ospiti, uno dei pochi che, ad un certo punto, potette scegliere: Ota Benga, un pigmeo del Congo, con un’altezza di circa un metro e 25 centimetri.

Ota fece la sua comparsa anche in Europa, ma – per così dire – in tournée, perché la sua vita in gabbia l’ha vissuta nel Bronx, condividendo il recinto con una scimmia. È facile immaginare il pubblico che lancia noccioline e banane, magari incuriosito e in attesa di scoprire chi, tra i due, la scimmia e l’altro, avrebbe raccolto per primo. Non ci vuole molto per capire quale devastazione psicologica nel ragazzo che in pochi anni, tra l’infanzia nel Congo e l’incontro ravvicinato con una società così diversa e così disumana, ha visto tutto quello che la mente può registrare in negativo. Eppure, venne il momento che qualcuno pensò a lui come ad un essere umano. Fu il reverendo James H. Gordon di Brooklyn, che dapprima guidò una protesta degli afroamericani e poi, non ottenendo risultati, chiese la custodia del ragazzo, cosa che venne concessa dopo molta insistenza.

Il religioso affidò Ota ad una famiglia in Virginia. Il ragazzo poté così studiare e poi, da persona libera e indipendente, lavorare in fabbrica. Sembrerebbe una straordinaria conclusione per una storia iniziata male e sviluppatasi peggio. Tant’è che Ota iniziò a programmare il ritorno nel Congo. Ma non era tempo per il lieto fine. Iniziò la prima guerra mondiale e i suoi sogni finirono lì. Era il 1916. Ota Benga si procurò un’arma e, ormai sfiduciato, la puntò al cuore. Morì così Ota, senza più un barlume di speranza. “Pensiamo che la nostra razza sia sufficientemente depressa anche senza esibire uno di noi come una scimmia. Pensiamo di meritarci di essere considerati degli esseri umani, con delle anime”. Reverendo James H. Gordon.

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