Le sette piante della regola camaldolese

Il Monastero di Camaldoli

di AMERICO MARCONI –

L’ultima volta che andai a Camaldoli fu una fine d’agosto di dodici anni fa e portavo la mia cagnolina Peggy. Affrontai un percorso tortuoso, sotto la pioggia e le nubi del passo dei Mandrioli, avendo deciso di raggiungerlo in auto da Bagno di Romagna. Ma infine, avendo cambiato versante, all’apparire della massiccia costruzione del Monastero immerso in una foresta secolare ci attendeva il sole. Scendemmo desiderosi di respirare l’aria profumata di erbe e incensi. Oltre a ricercare il profumo di fede e storia degli ambienti che compongono il Monastero, posto a m 800 di altitudine e fondato da San Romualdo nel 1012.

Visitai la foresteria e il suo cortile a colonne del ‘400, la bella biblioteca, la ordinata farmacia con tisane e liquori prodotti dai monaci. Infine la chiesa barocca del XVIII secolo con tavole a olio del Vasari. C’era una cerimonia. Tra due ali di persone silenziose, al centro del pavimento, a braccia allargate, era steso un futuro sacerdote camaldolese prossimo all’ordinazione. Il Padre Generale, in abiti sacri, gli ricordava che stava per lasciare tutto: affetti, averi, progetti nel mondo. Ora lui avrebbe scelto l’obbedienza, la povertà e la solitudine della vita monastica. Aggiunse che il suo era un salto nel vuoto sostenuto solo dalla fede. Quelle parole le compresi meglio raggiungendo l’Eremo un paio di chilometri più in alto. Dove spiccano le venti piccole case bianche, abitate in solitudine dai monaci.

Una settimana fa scopro una parte della regola camaldolese dell’XI secolo che mi era sconosciuta. Richiama i versi del profeta Isaia: «Pianterò nel deserto il cedro, il biancospino, il mirto, l’olivo e nella steppa l’abete, l’olmo e il bosso» (Is 41,19). Nella regola si precisa: «Se dunque desideri di possedere di questi alberi in abbondanza o se brami di essere tra loro annoverato (ut inter eos computari), chiunque tu sia, studiati di entrare nella quiete della solitudine (in solitudine quiescere). E sarai Cedro per la nobiltà della tua sincerità e della tua dignità; Biancospino per lo stimolo alla correzione e alla conversione; Mirto per la discreta sobrietà e temperanza; Olivo per la fecondità di opere di letizia, di pace e di misericordia; Abete per elevata meditazione e sapienza; Olmo per le opere di sostegno e pazienza; Bosso perché informato di umiltà e perseveranza».

Il testo esalta virtù che appartengono sia ai monaci che agli alberi, in un sorprendente reciproco confondersi. Ed è gettato il fondamento di tutta l’attenzione amorosa che i monaci hanno offerto nei secoli alle piante. Proprio da qui si dipana il lavoro di custodi appassionati che nella crescita della foresta riflettono la crescita della loro ascesi. Oggi rimaniamo meravigliati dai numerosi abeti bianchi che, alti più di cinquanta metri, puntano verso il cielo. Ma la nostra meraviglia si trasformerebbe in sbigottimento se solo riuscissimo a immaginare l’infinita altezza raggiunta dai loro custodi. E capiremo che il loro salto nel vuoto si é trasformato in volo. Volo di angeli custodi.

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