di LUCILIO SANTONI –
Un boccone d’infinito, note a margine dell’ultimo libro di Alessandro Moscè –
Ho appena terminato la lettura del bel libro di Alessandro Moscè intitolato “Le case dai tetti rossi”. Per un breve commento, voglio partire proprio dalla frase che chiude il risvolto di copertina: “Il racconto poetico e illuminante di un pezzo di storia del Novecento spesso dimenticato, una riflessione emozionante sulla follia, l’integrazione e la libertà”. Ambientato dentro l’ex ospedale psichiatrico di Ancona, il libro ci induce davvero a entrare dentro quelle tre parole, spesso distorte e abusate. La follia innanzitutto. Un territorio sostanzialmente tabù per la maggioranza delle persone. Ma attenzione, va specificato che qui parliamo della follia “debole”. Poiché c’è anche una follia “forte”, che riguarda imperatori, dittatori e uomini di potere di ieri e di oggi. La follia debole, dunque, era un tempo reclusa fra quattro mura, contenuta con camicie di forza e farmaci, creando sacche di dolore inimmaginabile. Poi venne Franco Basaglia e cambiò quasi tutto, si passò all’integrazione.
Il racconto di Moscè è scandito da inframezzi di memoria personale, spesso toccanti, come solo possono essere le cose che abbiamo perduto. In effetti l’autore, da bambino, aveva frequentato la casa dei nonni, situata proprio a ridosso del nosocomio, diventando amico del figlio del giardiniere, con il quale organizzava partitelle di calcio che coinvolgevano anche i ricoverati. Sullo sfondo, la città di Ancona, concreta, ce la descrive Moscè, non rude, non sensuale, dove gli abitanti coltivano sogni ancestrali. L’integrazione, dicevamo, parola oggi abusata soprattutto riguardo il fenomeno dell’immigrazione. Che induce a farsi domande. Ma chi vuole davvero essere integrato? I personaggi del libro, i matti, lo volevano davvero? O avrebbero voluto semplicemente un po’ d’amore? La domanda è cruciale e tocca i nervi vivi della nostra società.
Alcuni dei personaggi, all’apertura dei cancelli, di punto in bianco si trovano di fronte all’offerta velenosa fatta dal mondo dei normali: ora potete liberamente integrarvi; cioè rinunciare a una parte di voi stessi per diventare come noi. Ma uno di essi è molto chiaro: «Ci manderete a morire. Non userete le sedie elettriche come in America […] Emigreremo come le rondini che vanno a sbattere e si schiantano a terra. Tirano dritto, muoiono». È il grido di dolore di uno dei “matti” di Ancona, ma è il grido che, se drizziamo bene le orecchie, possiamo udire ogni giorno da parte di chi quotidianamente è offeso a morte da una società, una cultura, che vuole solo normalizzare, blaterare di una libertà vuota e fasulla, proporre una risposta e una cura per ogni devianza. Invece è la vita stessa ad essere incurabile, sembra dirci il libro di Moscè. E proprio tale impossibilità di una cura si incide nella nostra carne, fin dalla nascita. L’unico rimedio possibile allora, per alleviare il dolore, lo ripetiamo insieme all’autore, è l’amore, in tutte le sue forme: la carezza, il sesso, la vicinanza, l’amicizia, le parole dolci, l’abbraccio. Perché è solo perdendosi negli occhi dell’altro, respirando il suo alito, e sporcandosi con il suo schifo, che si può assaggiare un boccone d’infinito e di eterno.
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