di GIAMPIETRO DE ANGELIS –
Ci sono giornate che non si sa cosa fare. Troppo caldo, stanchezza e pressione bassa, con un certo vuoto nella mente. Si prende una decisione estemporanea, come andarsene per collina o alla più vicina montagna, per un po’ di fresco e per vivere di casualità, con nulla di programmato, accettando quel che viene, senza valore aggiunto. Si parcheggia, si fanno due passi nel bosco, si predilige l’ombra di un maestoso albero di platano per restarsene seduti, a guardare l’apparente nulla che presto e inaspettatamente diventa un palcoscenico della vita. Dapprima un cavallo bianco, come nelle fiabe. Lo vedi arrivare dal nulla, andatura lenta e regolare, con il collo chino a cercare l’erba che gli piace. Cammina quieto, attraversa l’intero campo a prato, quello che la domenica si riempie di famigliole per i picnic, raggiunge la strada, attraversa anche quella ed entra nel boschetto. Da lì a poco arriva un secondo cavallo bianco, praticamente uguale al primo. Compie lo stesso tragitto ed entrambi scompaiono dalla vista per ricomparire insieme, appaiati, intrattenendosi nel prato che brucano con meticolosa pazienza e lentezza quasi ritmica.
Attirano l’attenzione, qualche ragazzino si fa fotografare vicino. Loro, i cavalli, di tanto in tanto guardano attorno, si spostano di pochi metri e tornano a brucare. È evidente che sono abituati alle persone, la presenza umana non li disturba, né li porta a modificare il loro andamento e le proprie occupazioni. È la loro vita, pensi. Ed incanta. Incanta quell’attenzione all’erba preferita, quell’elegante lentezza. Sembra una metafora della vita, una sonata in sol minore adagio, un Tai Chi per cavalli. Per riflesso e contrapposizione, guardandoli vengono in mente ricordi a contrasto con tanta armonia. Tornano confronti e considerazioni sulla vita, sulla complicanza degli esseri umani di dotarsi di sovrastrutture concettuali, aggiungendo pesi e complessità, allontanando la leggerezza e la quiete. Chissà per quale strana ed inconscia associazione ripesco dai cassetti della memoria quella volta che un caro amico, con consolidata e antica stima reciproca, non credette a me su una data situazione, pur conoscendomi bene, preferendo la versione di un signore che, da molti, era ritenuto un abile bugiardo dai modi eleganti, estremamente bravo nelle lusinghe e nell’appariscenza.
L’atteggiamento istrionico, condito di romanziera personalità, vinse su quello mite, forse troppo spento di passione. Il Visconte di Valmont (Le relazioni pericolose di Choderlos de Laclos) avrebbe molto da insegnare sull’arte di essere convincenti inventandosi tutto. In un altro contesto, un collega, tra un discorso e l’altro, volendo confermare che il carattere brillante è spesso più accattivante, ci provocava con una ipotesi: se un dirigente ottenesse un viaggio premio e a sua volta volesse premiare un collaboratore per condividere la vacanza, chi sceglierebbe? Non il migliore nell’efficienza, pronosticò il collega, sceglierebbe il più divertente, l’ecletticoeffervescente che sa raccontare storie davanti ad un drink, che sa catalizzare l’attenzione con effetto anti-noia. Effettivamente ci fu un caso simile che andò proprio in quella direzione. Tornando all’amico, qualche anno dopo andò in pensione e si ammalò. Andavo a trovarlo con periodicità per due chiacchiere in compagnia e una ventata di amarcord. Con una certa amarezza, mi disse: “Vedo solo te. Che fine hanno fatto gli altri, che pur erano buoni amici?”.
Ecco, i Valmont erano andati da un’altra parte, a loro non piaceva fare le crocerossine, soprattutto verso chi, da pensionato, non aveva più il potere di prima. Ma questo lui non lo vedeva. Non vedeva che erano stati amici del professionista, e non di lui in quanto tale. Veniva confuso il ruolo con l’essere, con la conseguenza che la misura di una relazione era la misura della convenienza. Forse bisogna essere dei perdenti, non nel suo significato classico ma in una accezione più metafisica, per innamorarsi dell’anima di una persona e non del suo prestigio. E bisogna essere davvero stanchi e disillusi per guardare due cavalli che, pur non avendo fatto corsi sulle culture orientali, sanno perfettamente cos’è il “qui ed ora”. E lo sanno raccontare, chini sull’erba, in un giorno che non ha termine, mentre le ombre si allungano, il sole scivola di lato. Loro sono padroni dell’istante, appartengono alla terra in una ciclicità perfetta, piena di sostanza, vuota di futilità. L’auto è ancora al parcheggio, occorre tornare a casa, mi avvio con quello stesso passo misurato e lento. Idealmente sono ancora là, a pochi metri da quei due magnifici esemplari. E vi resterò a lungo.
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