di SARA DI GIUSEPPE –
Laboratorio teatrale Aoidos, Vincenzo Di Bonaventura attore solista – Alberto Archini percussioni, Ospitale delle Associazioni, Grottammare Alta – 23 novembre 2024 h21.30 –
GROTTAMMARE – Con Di Bonaventura non è mai solo “Recital”: è avventura e scoperta, è circumnavigazione di mondi poetici, è certezza – soprattutto – che sentiremo a lungo, dentro, quella sensazione di fiamma. E oggi, accanto a Dino Campana e ai suoi Canti Orfici, plana in mezzo a noi ancora una volta evocata da Vincenzo, la presenza maestosa di Carmelo Bene che la poesia di Campana volle portare in scena (Roma, 1982) affinchè il suo pubblico – migliaia e migliaia, sempre – percepisse la scintilla divina nell’umano.
È la tripartitura tematica dei Canti voluta da Bene per quel Recital – dalla dimensione onirica del reale, attraverso l’amore e il corpo, fino al tema del viaggio – che Di Bonaventura qui accoglie: occasione per evocare, del maestro, l’impareggiata voce-orchestra e quell’inesausta ricerca intorno alla phoné da cui nasceva infine l’“alleanza tra l’elemento musicale e cantato con l’elemento vocale inventato, creato, reso necessario”*.
E – quasi un miracolo, tra le raggelanti pareti dell’Ospitale – il nostro attore solista col fido djembe, le intense percussioni di Alberto Archini, creano stasera un tessuto sonoro che sfida il limite, incastona la poesia dei Canti e colorando il verso ne estrae fino all’impossibile tutta la potenza [microfoni Sennheiser, possenti fedelissime casse RCS in alto e di sponda, mixer che Vincenzo adopera come un pianoforte…].
Nello spazio sciabolato dalla voce attoriale, nelle traiettorie disegnate dall’incalzare delle percussioni, la poesia di Campana irrompe con forza tellurica e trasfigura il reale, lo sospinge in una dimensione onirica e orfica sospesa tra passato e presente, lo popola di presenze misteriose e miti ancestrali. E il verso procede per immagini e suoni, per illuminazioni vitali e aeree o per incubi notturni e questi recano con sé il panorama scheletrico del mondo.
Ladro di fuoco sente di essere Dino Campana: sacerdote di poesia, religione che esige il suo sacrificio quanto più essa si avvicina all’essenza dell’uomo; e lui, il poeta strabordante e irregolare, col suo difetto esistenziale che benpensantismo del tempo e smania di riempire i manicomi chiamarono follia, è anche suo malgrado veggente, di una visionarietà che lo scaglia al di là di sé stesso e sovverte il reale. Il volto oscuro delle cose e del mondo si affaccia alla coscienza e questa ne avverte le segrete corrispondenze: e sono bianche rocce le mute fonti dei venti e l’immobilità dei firmamenti, ma è la notte – la buia notte dell’inconscio, o “la notte dell’uomo d’ogni tempo”, madre di tutte le forme d’esistenza – che apre porte e mondi segreti: vi tremano attese e inquietudini, vi si materializza la Chimera, sembianza femminile, viso di leonardesca Gioconda – Dolce sul mio dolore – che dal mito si fa emblema di poesia: E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.
“… Io che vivo al piede di innumerevoli calvari” scrive di sé il poeta. E dunque la fuga, il viaggiare inquieto: sola salvezza (è “poesia in fuga”, quella di Campana, nella definizione che ne diede Montale) purchè sempre ci sia un altrove, non importa quanto prossimo o remoto, nel quale lo spirito possa, riconciliato con la natura, ricongiungersi ad essa; saranno allora le città, vicine o lontane, conosciute e amiche o luogo “dell’oscuro e dell’insidia”; ma sarà anche il mistero della Pampa deserta e uguale in un silenzio profondo; e saranno i mari sconfinati senza orizzonti. Saranno le vele. Ah! Ch’io parta! Ch’io parta!
Ed è ancora viaggio, l’amore: unico e disperato – e folle, quello sì – per Sibilla Aleramo, ape regina di amori numerosi e illustri. Quell’amore offre ali al povero troviero di Parigi, orizzonti al suo sogno di libertà; e, pur guerra feroce consumata fra gelosie e liti furibonde, Questo viaggio chiamavamo amore / col nostro sangue e colle nostre lagrime. Un tempo breve, e dopo saranno soltanto Castel Pulci, “ricovero dei dementi”, e gli ultimi 14 anni di vita scanditi dagli elettroshock.
Quella libertà cercata scavalcando il cancello della sua prigione, e ferendosi, e morendone di setticemia, il poeta l’aveva già sognata – vista – e detta in poesia, nel presago “Sogno di prigione”: Io ero in piedi: sulla pampa, nella corsa dei venti, in piedi sulla pampa che mi volava incontro (…) Un nuovo sole mi avrebbe salutato al mattino! O era la morte? O era la vita?…
Nessuna prigione più, soltanto ora il cielo infinito, non deturpato dall’ombra di nessun Dio ad accogliere il poeta, di nuovo e finalmente atomo, frammento dell’universo.
E libero – lui “così diverso” – come mai il mondo aveva voluto che fosse.
*[G.Dotto, Vita di Carmelo Bene]
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